Se per strada incontri un matto è un libro, scritto 12 anni fa da Anna Maria De Rosa. Il libro parla delle rappresentazioni sociali che bambini e adolescenti hanno della malattia psichica. Questo libro, che dorme da anni nella mia libreria, retaggio di un vecchio esame universitario, mi è tornato in mente ascoltando le tristi vicende di Kabobo, l’autore dell’aggressione ai danni – di quelli che la stampa chiama – “ignari passanti” di Milano.
La parola “matto” per uno psicologo ha un senso diverso dal significato che assume per i “non-psicologi”. È un termine indifferenziato, impreciso e spesso utilizzato con un valore ironico. Per gli psicologi “siamo tutti un po’ matti”, chi più chi meno. Seppure io sia uno psicologo clinico non ho mai esercitato professionalmente a contatto con “i matti”, anzi l’ho sempre evitato. Non è un ambito che mi interessi particolarmente e non penso di avere la pazienza e la disponibilità necessaria per diventare “un buon clinico”.
Quando ci trasferimmo a Roma, avevo 5 anni, vidi i primi “matti”. Ne vedevo spesso in giro, li riconoscevo facilmente dal fatto che parlavano da soli. Oggi, non ci riesco più, la prima cosa che penso è che siano al telefono e che abbiano il bluetooth. Se da piccolo incontravo un matto per strada avevo paura. La stessa, più o meno, che ho adesso. Adesso peso quasi 100 kg e quando li vedo provo quasi 25 kg di paura. Allora ne pesavo 25 di Kg e provavo 25 kg di paura. 25 kg di paura non è né tanta né poca. Dipende da quanto pesi. Se pesi 25 kg è tutta quella che puoi provare.
Non so chi, forse mia madre, mi ha insegnato a non guardare “i matti” negli occhi. Meglio ancora se non li guardi proprio. Io ci provavo e ci provo ancora a non guardarli, il consiglio mi sembra buono, ma un’insana tentazione mi spinge sempre a guardarli. Anzi, se fossi sicuro che loro non mi vedessero li fisserei proprio, o forse, farei di peggio: li osserverei. Si, perché osservare un “matto” per me è una tentazione forte. Ho paura dei “matti” per quello che mi potrebbero fare se si accorgessero che li voglio osservare, ho paura della loro aggressività se sapessero quello che penso di loro.
Sbaglio a pensare questo. Ho sempre pensato che “i matti” siano matti a causa dei pensieri che hanno su di loro quelli come me. Quelli che li scansano, che hanno paura, che li ignorano (per seguire un vecchio consiglio). La solitudine, probabilmente, è quella cosa che ti fa diventare “matto”.
E questo, purtroppo, è il secolo della solitudine, e non basta un auricolare bluetooth a nascondere un matto.