Il Sogno Americano esprime l’ethos e il carattere degli Stati Uniti: un paese dove ciascuno dovrebbe poter riuscire a esprimere le proprie capacità indipendentemente dalle proprie condizioni di partenza. E il sogno italiano qual è? Secondo me, negli anni, il Sogno Italiano si è atrofizzato e ridotto a due obiettivi: una casa di proprietà e un figlio laureato!
Se possono apparire legittimi dal punto di vista familiare, questi obiettivi sono – in parte – causa dei problemi del nostro paese.
L’obiettivo della casa di proprietà per tutti ha prodotto molti effetti negativi. Negli anni ha causato una drammatica cementificazione delle città italiane, producendo periferie brutte e poco vivibili. Dover produrre case a basso costo ha contribuito a generare abitazioni dall’elevato dispendio energetico e dalla bassa qualità della vita. Oltre che essere la causa di numerose sciagure legate al consumo del territorio e alla mancata prevenzione degli eventi naturali (es. terremoti o le alluvioni). L’estensione rapida e poco governata delle città ha contribuito a produrre percorsi per i mezzi pubblici inefficienti e – di conseguenza – la paralisi logistica (per il relativo traffico) delle zone urbane. Inoltre, l’investimento dei “risparmi di una vita” su una casa ha prodotto l’immobilizzazione di enormi risorse economiche senza che queste producessero realmente occupazione e nuova ricchezza. In termini macroeconomici questo ha significato per l’Italia – soprattutto nel centro sud – la crescita del settore edile a discapito dell’industria. Puntare su una edilizia “low cost” ha prodotto un modello ecologico fragile, incapace di guardare ai mercati esteri (ovviamente, visto che le case non si possono esportare) e all’innovazione di prodotto e di processo, le due uniche chiavi di successo dell’economia moderna.
Anche l’obiettivo del “figlio laureato” ha prodotto effetti negativi. Per far fronte a questa richiesta di laureati “low cost” è proliferato il mercato delle università “vicine a casa” (per contenere i costi del “fuori sede”) con docenti mediocri e percorsi formativi poco professionalizzanti. Inoltre, per evitare di dover dire dei no ai figli di qualcuno, è stato scelto di avere un modello a “maglie larghe” nella selezione in entrata delle persone e di scarsa (direi assente) governance dei percorsi formativi in relazione alle richieste del mercato del lavoro. Questo ha portato a sfornare centinaia di migliaia di laureati senza sbocchi occupazionali e con un livello di occupabilità molto basso. Venerdì, il sindaco di New York, Micheal Bloomberg ha sostenuto che dei laureati con voti mediocri non hanno un futuro occupazionale vantaggioso, contro un diplomato che sceglie una professione tecnica-artigianale (ad esempio, un idraulico). Affermazioni simili a quelle della Ministra Fornero, che sosteneva: “In un mercato aperto come quello europeo laurearsi per laurearsi serve a poco. Se ci si laurea male si hanno competenze modeste, che portano poco lontano, meglio non inseguire il titolo per essere dottori per forza. Meglio avere una formazione tecnica spendibile”. All’estero sono affermazioni ovvie, in una italietta di dottorini laureati con 90 e incapaci di trovare lavoro un reato di lesa maestà al sogno italiano del figlio laureato. Il desiderio del “figlio dottore” ha prodotto una avversione per le professioni tecniche e artigianali che stanno diventando sempre di più ambito occupazionale quasi esclusivamente presidiato da manodopera straniera.
A chi non lo avesse già letto, consiglio “Contro i papà” di Antonio Polito, che evidenzia – abilmente – come questi due temi siano legati tra loro. L’investimento sul patrimonio familiare (la casa) distrae risorse “vere” dall’investimento nella formazione dei figli. Probabilmente, togliere il valore legale ai titoli di studio, inserire percorsi di certificazione delle competenze e mettere le università in competizione tra loro sulla “occupabilità”, potrebbe essere la ricetta per iniziare a produrre miglioramenti nel sistema-paese.
mah, capisco il ragionamento e direi che filerebbe tutto se il mercato del lavoro fosse quello degli stati uniti, se effettivamente impegnarsi e avere voti migliori fosse premiante nella società/azienda italiana.
purtroppo la cultura italiana della scorciatoia, dell’inciucio, della raccomandazione, del “una mano lava l’altra”, del “è un mio amico”/”appartiene al mio gruppo”, del sistemarsi e vivere di rendita ha generato un mostro difficile da scardinare