10 anni fa, il 26 dicembre del 2004 ero in Sri Lanka. Quando tornai in Italia, mi ripromisi che 10 anni dopo avrei raccontato, per bene, questa storia. Una storia che non dimenticherò mai.
Ero partito 10 giorni prima e avevo intenzione di rimanere in Sri Lanka fino al 6 di gennaio. Il giro previsto era quello classico: Colombo, Kandi, Anuradhapura, poi saremmo dovuti andare a sud, per vedere il mare, fare qualche immersione. Il giro non era definito nei dettagli. Avevo il biglietto di andata e di ritorno, ma non avevo prenotato nessun hotel. Da Colombo a Kandi usammo il treno. Poi, da Kandi, un’auto in affitto.
Il 26 di dicembre ero ad Anuradhapura, una cittadina rurale, al centro dello Sri Lanka, lontana dal mare. Avevamo accumulato del ritardo durante il viaggio, avevamo fatto tardi una mattina e, arrivati alla stazione, non avevamo trovato il biglietto per raggiungere Galle da Colombo. Se lo avessimo trovato, se lo avessimo preso quel treno, ci saremmo ritrovati in uno dei treni travolti dallo tsunami. Ma questo ancora non lo sapevamo, il 26 dicembre. Non sapevamo ancora nulla di quello che era accaduto. Eravamo in un hotel particolare. Dicevano fosse patrimonio dell’umanità. Tutto era rimasto come nel 1800, quando era stato costruito. Nessuna TV.
Unica deroga dei vecchi condizionatori in stanza. Era un hotel in stile coloniale, affascinante, per chi lo voleva trovare affascinante. Scomodo, per chi lo voleva trovare scomodo. Era assediato dalle scimmie, che all’ora del the cercavano di rubare i biscotti agli ospiti. Ricordo anche che guardando fuori c’era, su un albero, un nido di aquile.
Arrivammo ad Anuradhapura proprio il 26 dicembre. Di quel viaggio ricordo che lungo la strada vedemmo un elefante che non voleva entrare in acqua per lavarsi, il proprietario disse al nostro autista che era strano, che di solito entrava subito.
Per strada, un tizio disse al nostro autista qualcosa, che lui ci tradusse con: “C’è stata una alluvione, a Sud. C’è stato qualche morto. Ma qui le alluvioni sono periodiche”. L’autista per quasi tutto il viaggio ci aveva mostrato luoghi di tragedie. Ad un punto, durante una strada ci fece vedere una collina, poi ci spiegò che, prima, sotto la collina c’era un villaggio, rimasto sommerso da una frana enorme. Era la ventesima tragedia che ci raccontava, non ci facemmo neppure troppo caso. Solo per scrupolo, dissi a Maddalena (la mia ragazza di allora): “Senti, nel dubbio, manda un SMS a tuo padre. Quello è uno che legge i trafiletti, magari legge di questa alluvione e si preoccupa!”. Lei mandò una cosa del tipo: “C’è stata una piccola alluvione, al sud. Noi siamo al nord. Tutto bene”.
Ad un certo punto, sul mio cellulare, arriva un messaggio di mia zia Rosanna: “Dimmi che state bene”. Rispondo: “Certo! Tu come stai? Tutto bene?” Dopo un po’ cominciano ad arrivare altri SMS. Stesso tenore. Tutti molto preoccupati, tutti molto preoccupanti. Proviamo a capire. Non ci riusciamo. Decidiamo di chiamare. Chiamo i miei genitori, ma mia madre non sa nulla. Mi dice che sta preparando da mangiare, ha ospiti e ha poco tempo. Chiamiamo e cominciamo a capire. Pensiamo che la “piccola alluvione” forse era stata più grande di quello che potevamo immaginare. Pensai: “Ammazza quanta gente legge i trafiletti!”
Decidiamo di andare in paese per informarci. Ma il 26 o anche il 27 ad Anuradhapura era festa.
In verità in Sri Lanka è sempre festa. Credo ci siano più giorni di festa che giorni lavorativi. Cumulano le festività di tutte le religioni presenti sull’isola. Buon per loro, un po’ meno per noi che trovammo tutto chiuso. Provammo a chiedere, ma scoprimmo veramente poco.
Poi trovammo un internet point, e qui scoprimmo qualche cosa in più. Era una tragedia senza precedenti. Ma ancora non c’erano tanti video o informazioni precise.
Andammo a vedere alcuni templi vicino Anuradhapura, scegliemmo il basso profilo. Vacanza finita, vediamo cosa c’è intorno, poi domani decideremo cosa fare. Andando in giro vedemmo che c’erano ancora tanti turisti che non sapevano nulla. Provammo a confrontarci.
Ma cominciano ad arrivare altri SMS, sempre di più. Ci chiedono se siamo vivi. Anche i miei genitori si accorgono di quello che era successo. La richiesta di tutti è la stessa: “Tornate a casa il prima possibile!”
Spiegare che stavamo bene, in un posto interno dove ancora non sapevano nulla non serviva. Tutti ci chiedevano di tornare a casa. Subito!
Il perché lo scoprimmo la sera. Il direttore dell’hotel ci disse che nella sua stanza aveva una piccola TV. I filmati erano agghiaccianti. Solo così capimmo la preoccupazione di chi era a casa. Si parlava di 200.000 morti. Si parlava di epidemie. Si parlava di catastrofe senza precedenti.
Noi stavamo bene, ma fare i turisti in una situazione del genere non aveva senso. Ok, torniamo a casa. Decidiamo di rimanere in hotel, di non uscire se non per andare nell’internet point in città. Affittiamo delle bici in hotel. L’ultima immagine di quel giorno, che ricordo, era di alcuni turisti in spiaggia in Thailandia. Ricordo il fastidio che provai pensando che prendevano il sole mentre c’era così tante persone morte.
Il giorno dopo ci saremmo informati su come tornare in Italia. La mattina successiva andiamo in una agenzia di viaggio locale. Prima di noi c’era una famiglia di svizzeri. 3 figli, madre, padre e una babysitter. Tornavano a casa, come noi. Chiesero dei biglietti. Gli spiegarono che era tutto esaurito. Trovarono una soluzione per un volo via Mosca, in business class ad un prezzo pazzesco! Del prezzo, lo giuro, non mi importava nulla, ma spendere tutti quei soldi per fuggire da un posto (Anuradhapura) – che tutto sommato – non presentava particolari criticità, forse era come stare in spiaggia con i morti vicino. Lo penso ancora oggi. Decidemmo di rimanere. Saremmo rimasti in hotel fino al 4-5, poi in macchina fino a Colombo. Due regole: 1) non dare nell’occhio, non fare i “turisti” (niente foto, niente visite o altro), 2) non dare fastidio, usando risorse che potrebbero andare ad altri in difficoltà.
Decidiamo di fare come ci chiede un SMS, ci mettiamo in contatto con l’ambasciata per dare la nostra posizione. Parlo con l’ambasciatore. Gli spiego che siamo psicologi e che se serve (visto che per riuscire a parlare con qualcuno avevamo chiamato decine di volte) siamo a disposizione per dare una mano. Che possiamo rispondere noi al telefono o che – se vuole – possiamo aiutare dei concittadini. Mi spiega che non serve nulla e che dobbiamo solo stare in hotel e non creare problemi.
Il giorno dopo, a colazione, un cameriere, ci avvicina. Mi dice che ha sentito alcune telefonate e che lo staff sta organizzando una piccola raccolta di fondi. Con 30 dollari si possono comprare dei medicinali, con 15 del riso. Mi spiega che posso dare anche meno, come mi sento. Si scusa se ha sconfinato.
Ci penso un minuto o due. Decido di mandare a tutta la mia rubrica del telefono la sua richiesta. Spiego: ditemi quanto volete dare, io sono qui, li anticipo io e poi me li ridate quando ci vediamo a Roma.
Dopo circa 30 secondi mi arriva un messaggio, mi dice: “Per me e mia moglie, anticipa 1500 euro, grazie per avermelo chiesto”. Dopo pochi minuti siamo già a più di 3.000 euro. Risposte straordinarie, superiori a qualsiasi aspettativa.
Comincio a rispondere ad altri messaggi. Alcuni mi chiedono di aspettare, vogliono coinvolgere altri amici. Scoprirò dopo, che a Lama dei Peligni, mia zia aveva mobilitato il paese. Dissi a tutti di versarli sul mio conto, che li avrei rendicontati e che avrebbero visto come li avremmo spesi. In pochi giorni arrivammo a circa 15.000 euro.
Scoprimmo solo allora che prelevare dal proprio conto 15.000 euro in Sri Lanka era praticamente impossibile. A questo punto, mio padre e il mio caro amico Marco Amendola, convinsero il direttore della filiale dove avevo il conto a consegnare i 15.000 € e mandarmeli tramite WesternUnion.
Anche qui qualche problemino ci fu, ci chiesero di aspettare un po’ per mettere insieme la cifra in Rupie. Ma il più era fatto. Avevamo i soldi necessari per comprare le cose.
Ma da soli non saremmo andati lontani.
Per questo, in quei giorni conobbi i ragazzi di una TV locale (MBC Networks). Stavano facendo anche loro una piccola raccolta fondi e organizzavano un camion per portare tutti i prodotti raccolti a Trincomalee.
All’inizio pensavano che io fossi pazzo, poi si fidarono. Ci avrebbero aiutato a mettere insieme i camion e tutto quello che serviva. Ci diedero la lista della spesa: pentole, stoviglie, letti o brande, lenticchie, riso, un po’ di soldi per chi aveva perso tutto.
La notte del 31 dicembre non la scorderò mai. Tutto buio intorno, si sentivano solo le preghiere per i morti.
Lo tsunami mi aveva colpito al cuore. I luoghi colpiti erano i miei luoghi. La mia Indonesia, la Thailandia, il Madagascar, la Malesia, la Birmania… i luoghi dei miei viaggi. I luoghi di cui avevo tanti ricordi.
Comprammo tutto quello che potevamo comprare. L’idea era semplice: volevamo apparecchiare la tavola per 1.000 persone, con un kit di sopravvivenza che consentisse loro di poter mangiare per almeno qualche giorno, in attesa che arrivassero altri aiuti. I ragazzi della TV ci misero in contatto con i responsabili dei campi allestiti nelle scuole. Ci confermarono che avevano bisogno di cibo e di qualche materasso. Inoltre avevano finito i farmaci base. Comprammo tutto quello che potevamo comprare. Spendemmo quasi tutto, tenemmo solo dei soldi da dare alle persone nelle condizioni peggiori. Pensavamo alle famiglie con bambini piccoli, agli anziani.
Trovammo aiuto ma anche molta ostilità. Provarono a fregarmi. Lo capisco, ero uno stupido turista pieno di soldi che pretendeva di comprare a un buon prezzo. Quando andammo a comprare il riso, mi fecero trovare già il camion carico. Era il prezzo migliore al quintale che ci avessero fatto, il 10% in meno degli altri. Uno mi disse che il prezzo era “troppo basso per essere vero”. Il venditore mi giurava che lo faceva per aiutare i suoi fratelli. Gli chiesi di pesare un sacchetto sul camion. Sorrise, mi disse che era giusto da parte mia. Mi disse di sceglierlo io. Lo scelsi, lo pesammo sulla sua bilancia: 10 kg esatti.
Gli chiesi se potevo usare la mia, la tirai fuori dallo zaino. Pesai un sacchetto: 8 kg e mezzo! Ne presi uno di quelli che non aveva caricato e verificai che pesava invece 10 kg.
Era chiaro, tutti i sacchetti sul camion pesavano il 15% in meno. Non fece una piega. Diede ordine di svuotare il camion e di caricarlo con i sacchetti che aveva da un’altra parte. Io pretesi di pesarli uno per uno.
Perché non mi abbiano ucciso quella sera, sinceramente, non l’ho mai capito.
Trovammo un magazzino di materassi e comprammo tutto quello che aveva. Mi fece vedere che me li vendeva allo stesso prezzo a cui li aveva comprati e che mi regalava le coperte. Non ho dubbi su quell’uomo, aveva gli occhi lucidi mentre parlava con noi. Disse che aveva dei parenti da quelle parti.
Comprammo tutto quello che potevamo prendere, svuotammo intere farmacie, comprammo soprattutto il latte in polvere che ci avevano chiesto con insistenza.
Il 5 gennaio mattina saremmo partiti per portare tutto a Trincomalee. Decidemmo che saremmo andati anche noi. Avevamo comprato tutto con i soldi di persone che si erano fidate di noi. Dovevamo garantire che tutto giungesse a destinazione.
Prima di partire, riuscii a far fare delle bandiere dell’Italia da attaccare ai camion, e degli striscioni con sopra i nomi di chi aveva mandato dei soldi.
In alcuni casi misi i nomi dei loro figli.
Partimmo presto. Ricordo la pessima organizzazione del mio manipolo di uomini. Il peggior gruppo con cui io abbia mai lavorato. Ricordo che caricarono i camion in un posto dal quale poi, carichi, non potevano uscire.
Ricordo che chiesi: “Ma perché mettiamo i materassi senza copertura? E se poi piove?” Mi dissero, guardando il cielo, che non sarebbe piovuto.
Ovviamente, avevo ragione io e ci dovemmo fermare in un paese, infilare i materassi in ogni casa e aspettare che spiovesse.
Eravamo tutti giovani, inesperti e un po’ scemi.
Prima di partire, chiamai l’ambasciatore che mi diffidò da fare una cosa così folle. Mi disse che per andare a Trincomalee sarei passato per zone controllate dalla guerriglia, che rischiavo stupidamente la vita. Ecco, a 10 anni di distanza penso che forse ho rischiato, ma non era stupidamente. Non lo era proprio. L’ambasciatore mi disse che a Trincomalee c’era già l’aiuto italiano. Non serviva nulla. Mi spiegò che in Sri Lanka non servono i materassi che si dorme a terra su delle stuoie, che io ero solo un ragazzino.
Per un’ora vacillai, pensai che stavo sbagliando. Per fortuna non gli diedi retta e la mattina partimmo.
Dopo i ricordi sono confusi, ricordo che arrivammo nei campi, che distribuimmo tutto quello che avevamo. Mi ricordo i bambini. Mi ricordo che non capivo come distinguere i bisognosi dai non bisognosi. La miseria era ovunque. Ma c’era dignità.
Ordinatamente ognuno prendeva il suo kit, il suo riso, stando in fila.
Il nostro kit andava fortissimo!
Tutti sembravano essere molto contenti nel riceverlo.
Come avevamo concordato visitammo tutti i campi. Di tutte le etnie. Con alcuni andò meglio, con altri peggio.
Qualche problema ci fu, ma nulla di preoccupante o di pericoloso.
Nessuno ci toccava, anzi ci invitavano nelle case rimaste. A cena mangiammo in un campo. Dividemmo quello che c’era.
Incontrammo anche le Tigri Tamil, ci portarono in un campo.
Mi portarono dal loro capo, volto coperto, armato. Non capiva se quello che dicevo era vero. Non capiva cosa dicessi. Poi capì che ero italiano. Mi spiegò che la zia lavorava a Piazza Mancini. Dissi che conoscevo la piazza. Questo bastò, mi chiese per lui una bandiera dell’Italia.
Ci scortano in un campo dove arrivammo di notte. Di tutti i campi era quello dove c’era più bisogno. Mancava praticamente tutto, sopratutto il cibo e le stoviglie.
C’era veramente bisogno di tutto, per fortuna avevamo portato anche dei pentoloni da campo.
Li apprezzarono molto e apprezzarono molto i farmaci di base e il latte in polvere.
Finimmo il giro all’alba.
Appena in tempo per tornare indietro ad Anuradhapura, poi in macchina fino a Colombo. L’aereo che ci riportava a casa. Fiumicino.
Prima di prendere il volo riuscii ad incontrare il garagista sotto casa mia a Roma. Dopo anni in Italia erano tornati a casa e avevano investito tutto in un ristorante in spiaggia.
Mi dissero di aver perso tutto. Diedi a loro quello che mi restava delle rupie raccolte.
Decollammo. Dietro di noi tutto il dolore che avevamo visto. Le storie di chi aveva perso tutto.
Una signora mi disse che aveva perso tutto, tutto e una figlia piccola. Mi tradussero che la figlia non sapeva nuotare. Lei mi disse, guardandomi negli occhi: “di mia figlia non mi resta nulla. Non abbiamo trovato neppure il corpo e anche le foto sono andate perse. È come se non fosse mai esistita, nessuna traccia.” Fece il gesto, con il braccio di un’onda che spazzava via tutto.
Quell’onda io non l’ho mai vista. Ho visto solo quello che aveva prodotto in una città già povera e che aveva poco. All’aeroporto ci aspettavano in tanti. Io non avevo perso nessuno e nessuno aveva perso me.
Sono passati 10 anni. Questa esperienza mi ha cambiato la vita. Mi ha fatto capire che si può apparecchiare la tavola per 1.000 persone. Non è difficile se lo si vuole. Se lo si fa insieme.
P.S.
Probabilmente commisi degli errori. Probabilmente avremmo potuto usare in modo migliore tutti o una parte di quei soldi. In quel momento ero convinto di fare la cosa migliore e più giusta. Se tornassi indietro rifarei tutto.