Il Kintsugi, (金継ぎ) ho letto, significa letteralmente “riparare con l’oro”. Si tratta di una pratica giapponese dove, utilizzando oro o argento liquido (o lacca con polvere d’oro) si riparano oggetti in ceramica rotti.
Non sono un esperto di kintsugi, non l’ho mai fatto. L’ho scoperto leggendo un libro sulla cultura giapponese, e me ne sono innamorato.
La prima cosa che ho pensato è stata: devo assolutamente comprare un kit e usarlo a lezione all’università. Immaginavo di fare una esercitazione in cui tutti sceglievano un piatto di ceramica, il piatto veniva messo in un sacco e lasciato cadere. Quindi, ciascuno degli studenti, doveva riparare con la tecnica del Kintsugi il piatto. Finita l’esercitazione avremmo riflettuto insieme sulle ferite della vita, sulle volte che siamo andati in pezzi e sul “filo d’oro” che ci aveva rimesso “in forma”. Quel filo d’oro, io lo chiamo resilienza. La capacità di ridare una forma. L’orgoglio per la cicatrice, che – invece di penalizzarmi – mi valorizza.
Forse, il Kintsugi andrebbe insegnato nelle scuole. Forse aiuterebbe ad affrontare l’adolescenza. Quando una cicatrice, una imperfezione viene vista come un dramma.
Il Kintsugi ci insegna che con un filo d’oro una cicatrice può renderci unici, farci diventare bellissimi. Avete presente la storia della rosa nel Piccolo Principe? Ecco, una cosa del genere.
Mi è venuta in mente una scenda del film “la stanza del figlio” di Nanni Moretti. Quando lui parlando in cucina con la moglie si lamenta che in casa è tutto sbeccato, rotto. Che la tazza messa su un ripiano, in mostra è girata dal lato “buono”. Quello dal quale non si vede che è sbeccata.
Forse, in quella situazione di dolore assoluto, il kintsugi avrebbe indicato e rivelato una via alternativa al sordo dolore. Forse, con il rispetto che si deve al dolore totale di cui parla il film, il kintsugi è una alternativa alla tazza “girata”. Il kintsugi propone di essere orgogliosi della propria ferita, della propria sbeccatura.
Che dire, l’ho già detto, mi sono innamorato del Kintsugi. Devo solo trovare un modo per inserirlo nei miei corsi. Per farlo sperimentare e usarlo per parlare della resilienza e dell’antica arte di sovvertire la storia (già scritta) della nostra vita, per farne una storia unica e incredibile.
La resilienza è la competenza che ci consente di cambiare il finale delle storie della nostra vita. Hanno scritto che siamo a pezzi, che siamo un piatto rotto? Che possiamo finire solo nel secchio? La resilienza è la capacità di scrivere una storia diversa. Da un piatto da buttare, al nostro piatto preferito!
Buon kintsugi a tutti!